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Sesso 性交 Seikō

Aggiornamento: 30 apr 2019

Il sesso vende, è per questo che ne Il Prezzo della Sposa ho inserito così presto una scena bella spinta, o come direbbe Ken Follett "steamed". "Al vapore"... in italiano non rende, a meno che uno non si ecciti pensando ai ravioli o ai bagni turchi.


Non è per i soldi di per sé, ovviamente, se ho scritto quella scena. Un po' mi ci ha spinto mia moglie, che è sessuologa e gran lettrice di Follett; un po' è perché volevo capire come si fa a condividere una cosa così intima con una persona sconosciuta, uno che un giorno guarderà le immagini prodotte dalla mia mente, e che avrà il potere di vedermi, un potere che forse a quel punto non vorrò più concedergli. Ancora oggi arrossisco a rileggere quelle righe e a pensare che tutti potete guardare quello che ho immaginato. Ma non me ne pento. Lo rifarò di certo.


Tuttavia non è per questo che mi ritrovo a prendere appunti sul tema. È stato un caso. Una delle mie migliori amiche qui a Tokyo mi ha invitato a fare lezione ai suoi studenti una volta al mese. E visto che non avevo intenzione di farmi pagare (si tratta di un favore) le ho chiesto di insegnarmi qualcosa in cambio.


Quel qualcosa è la sua ricerca antropologica sulle sex-workers: quasi un decennio trascorso nei quartieri a luci rosse di varie città del mondo, specialmente Tokyo e Amsterdam, una ricerca sulla quale ha scritto un libro molto bello, a giudicare dalla cura dell'edizione e dalle recensioni. Ma visto che per ora mi ci vuole una giornata solo per tradurre il sommario, ho chiesto a Yoko di prenderci una birra e di parlarmi di quello che ha visto, udito, sentito, durante tutti quegli anni. E me ne ha dette...


"La donna della copertina" ha cominciato a raccontarmi, "quando la vidi la prima volta pensai che aveva un'aria furba (cunning), ma poi fu proprio lei a cambiare il modo in cui vedevo le sex-workers". L'idea che aveva, e che tutti abbiamo, è che ci sia qualcosa di necessariamente maligno nella prostituzione: è qualcosa che si fa solo per soldi, vuoi perché se ne ha bisogno, vuoi perché si è così corrotti dentro da non desiderare altro che fare più denaro possibile nel minor tempo possibile.


E ho imparato, discutendo con un tizio che si occupa di porno giapponese, che effettivamente per molte ragazze è così. Anche questo l'ho incontrato per caso. È uno studioso francese, amico di un'artista neocaledoniana che mi ha presentato il mio capo giapponese, perché hanno in programma di fare un lavoro insieme alle Isole Salomone. Il mondo è piccolo. Comunque, questo tizio mi diceva che se devi scegliere tra un lavoro qualunque per studenti e un lavoro da sex-worker, e i tuoi soli criteri sono il tempo e il denaro, non c'è confronto che tenga: col secondo lavoro guadagni in un mese quel che con il primo guadagneresti in un anno.


Quello che ci immaginiamo a questo punto non è piacevole. Uomini poco attraenti, malcurati, ubriachi, che mugolano, umidicci e maleodoranti, addosso a giovani ragazze così disperate da non capire quanto sono corrotte, o così corrotte da non capire fino a che punto sono disperate. Ed è un'immagine certamente fedele a una grossa fetta della realtà della prostituzione. A proposito di questa visione delle cose, sto leggendo Tokyo Vice. Anche questo per caso, ma in fondo non così tanto per caso. Era sulla mia lista di letture giapponesi e visto che il tema del sesso continuava a saltare fuori ho pensato che avesse senso andare a vedere come un gaijin l'aveva raccontato.


"C'est un torchon!" ha esclamato il francese quando ho menzionato il libro. "Uno strofinaccio", che, anche in questo caso, non rende l'idea. Quel che voleva dire era che con il romanzo di Adelstein ci si poteva pulire il cul. "Non solo è scritto male", mi ha detto, "ma è del tutto di parte: per lui il sex-working è solo un crimine, un traffico di esseri umani, una barbarie da eradicare. Io non sono affatto d'accordo con lui."


Ma viviamo in un mondo in cui quello che dici non è giudicato di per sé: il suo valore dipende anche da chi sei. Per questo ha più senso citare la ricerca della mia amica, che con le sex-workers ci ha passato più di un decennio e le conosce davvero. L'ultima volta che ne abbiamo parlato è stato settimana scorsa, dopo una lezione alla Sophia University dove, combinazione, un'antropologa di Harvard ha parlato della sua ricerca tra le sex-workers giapponesi, in questo caso quelle di mezza età.


Di mezza età, come la donna di cui mi ha parlato Yoko. "Per essere brava, non devi volere soltanto i soldi. I clienti se ne accorgono, e non tornano più". Bisogna specificare a questo punto che le donne di cui si è occupata la mia amica non sono ragazzine inesperte reclutate da un pappone qualunque per lavorare durante le vacanze in un qualche bordello improvvisato. Yoko ha fatto ricerca tra prostitute di un certo livello, assunte con regolare contratto da un'azienda molto importante per la Tokyo bene, un'azienda che fornisce "Servizi Sadomasochistici" a uomini ricchi e molto in vista.


Quando ho appreso ciò ho cominciato a pensare che ci sarebbe potuta essere una bella storia da qualche parte e ho cominciato a prendere appunti.


"Lui è un uomo d'affari" ha continuato Yoko. "Vive in America ma deve recarsi ogni mese in Giappone. E ogni volta vuole vedere lei. Ha un appartamento in centro a Tokyo, dove tiene nascosti tutti i suoi pannoloni."

Smetto di scrivere.

"Pannoloni?"

"Sì, ha una collezione di pannoloni di cuoio lavabile fatti su misura."

"E cosa diavolo ci fa?"

"Pensavo sapessi di cosa stavamo parlando."

"Lo pensavo anch'io."


Ci sono state delle volte in cui quest'uomo ha passato anche 16 ore con la donna della copertina. Non tutte a letto. Anzi, per niente. Prima la fa venire a prendere da un autista e la fa condurre al luogo dell'appuntamento. A volte vanno a teatro, dove siedono in posti molto buoni ma sempre nascosti. Poi vanno a mangiare nei migliori ristoranti di Tokyo. E quando mangi nei migliori ristoranti di Tokyo, nessuno lo saprà, perché i migliori ristoranti di Tokyo, quelli veri, sono davvero, davvero nascosti.


E solo quando la serata è finita che vanno a casa. Lei si cambia i vestiti, lui pure. E finalmente cominciano. Pare che lui abbia perso la madre quando era ancora piccolo, e pare che sia per questo che, dopo aver costruito una grande azienda, aver fatto una famiglia, aver vissuto una vita, ha bisogno ancora di pagare una donna per tenerlo in grembo, vestito da lattante, e carezzargli il viso sussurrandogli: "non ti preoccupare, andrà tutto bene", finché non si addormenta.


Quando ero piccolo ricordo che le mani di mia madre erano davvero grandi. E mi ricordo che glielo chiedevo, di venire vicino al letto a castello, infilare quelle sue manone tra le assi di protezione, e tenermele un po' sulle guance. Qualche anno dopo, mi sono ritrovato a pensare: "Un giorno scriverò un libro intitolato 'Le mani della mamma'", e racconterò che cosa si prova. Ci ho ripensato quella sera, ascoltando la storia di quest'uomo.


In fondo, a questo deve servire l'antropologia narrata: a pensare a loro e a pensare a noi. E quando dico noi, intendo noi tutti, intendo il genere umano nel suo insieme. Forse siamo più diversi di quanto siamo simili, o forse l'opposto. Ma non importa. A sentire le nostre storie possiamo farci un'idea sempre più profonda e precisa di cosa siamo, e soprattutto di cosa sia il bene e cosa il male.


Ed è per questo che mi è sembrato di vedere una bella storia in quel che mi raccontava la mia amica. Lei stessa ha una bella storia da raccontare sul perché è finita a fare questo mestiere. Non la racconterò oggi, che a dire troppe cose importanti si rischia di farle sembrare cosucce da niente. Dirò solo che la ragione per cui Yoko ama il suo lavoro è la stessa per cui il nostro più grande poeta recente, alla domanda "qual è la canzone che più ti somiglia?" rispose, ridendo: "Sicuramente Bocca di rosa".

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