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Ore giapponesi (tante)

Tempo di lettura: 6 minuti.

Consigliato con: niente.


Tante, tante ce ne sono volute per leggere il libro di Maraini; lungo, non tanto per la quantità di pagine quanto perché non è sempre una lettura avvincente. Mi pare di bestemmiare nel dir questo, poiché l'autore non è semplicemente un uomo, ma un simbolo, un monumento nella storia della letteratura italiana. Ma è così. Forse siamo noi a essere sbagliati, a non avere più la tempra per percorrere i discorsi sviluppati nel corso di pagine dense. Ma dire che Ore Giapponesi sia ancora attuale mi pare errato, e cercherò di spiegare perché, prima di tutto ricapitolando cosa invece c'è di più bello in questo famoso libro.


Maraini è insuperabile nel raccontare l'altro. Sa fare altrettanto solo chi, come lui, si è nutrito di repertori concettuali separati da migliaia di chilometri. Quando parla dei giardini giapponesi usa l'inglese, intraducibile in italiano, per illustrare il controllo della natura da parte dell'uomo nipponico: the overstatement of understatement. La pianta viene piegata alle esigenze estetiche del giardiniere; che parola inadatta a indicare chi scompaia dalla scena dopo aver stabilito in che modo la bellezza della Natura dovrà presentarsi all'occhio dell'uomo! Egli sparisce, lasciando solo Lei, dopo averle permesso di vestirsi di sé stessa, ma non completamente, solo dei suoi abiti più belli. E la bellezza è concetto umano, in questo caso declinata secondo le leggi dell'asimmetria. Chi volesse cominciare a capire il rapporto dei giapponesi con la Natura, è Maraini che deve leggere.


Ma prima ancora di questo varrebbe la pena assaporare le delicatezze del linguaggio, e se non lo si può fare con anni di studio e di viaggio, lo si può fare leggendo la sua squisita spiegazione delle differenza tra le parole delle donne e quelle degli uomini. "Gli uomini usano forme verbali brevi, intense, scattanti, quasi comandi militari -itta, yutta, aru, minai, kuré-; in bocca alle donne queste stesse parole si addolciscono, si affusolano, scivolano come sospiri o cascatine d'argento -ikimashita, iimashita, arimasu, mimasen, kudasai-". E se questa opposizione non fosse abbastanza limpida all'orecchio non abituato del lettore, Maraini usa ancora l'inglese: "sarebbe come se ... gli uomini usassero prevalentemente parole sassoni ... e le donne preferissero vocaboli di origine latina... come se gli uni dovessero dire ... buy that pot and pay the man, mentre le altre fossero obbligate invece ad annunciare, purchase that recipient and conclude the transaction with the vendor". Bisogna avere il mondo dentro di sé per saper dire tanto.


E infatti il nostro si sposta ancora, torna in Italia, e sceglie le città di Viterbo e Civitavecchia per spiegare quanto sia diabolica le lingua giapponese. Entrambi i nomi significano "città vecchia", ma se immaginiamo per un attimo che queste due parole si scrivano ciascuna con i due ideogrammi di vecchio e di città, all'occhio non allenato alla lettura dei kanji i due nomi parrebbero perfettamente identici. Come distinguerli allora? Città-vecchia o Vetus-Urbs? Non ci resterebbe che la conoscenza del contesto per permetterci di capire di quale delle due si stia parlando. Un problema simile lo ha lo studente di inglese che tutti siamo stati in un momento della nostra vita: come si fa a sapere con certezza la pronuncia di parole che contengono gruppi graficamente simili delle stesse lettere? Pear, bear, near, fear... Anche Maraini cita esempi di parole inglesi per suggerire che l'unico modo per farsi strada in questo mondo di segni è l'esperienza.


Ed è proprio con l'esperienza che Maraini dà il suo meglio. Quando racconta le storie, da lui stesso vissute o quelle che gli hanno raccontato, ecco che improvvisamente siamo anche noi lì con lui: attraverso i patimenti della prigionia negli ultimi anni della Guerra; i nostri occhi dolgono per un cielo "madreperlaceo, un soffitto d'altissimi vapori che disciolgono il sole in una larga macchia accecante senza contorni"; e quando ci sciogliamo in deliquio per qualcosa di piccolo, tenero e unico come il cinguettio di una geisha. Maraini è un antropologo, ma il suo linguaggio è spesso quello della poesia perché ha scelto sempre di non fingere, di non tentare neanche di essere oggettivo. Parlando di un giovane prete cattolico così ardente da non poter celare lo stridere d'idee contrastanti nel proprio monologo interiore, scrive: "Padre Fustelli ci guarda facendo una leggera smorfia nervosa con la bocca; sembra qualcuno che traversi la strada con una donna che gli piace, ma con la quale non vorrebbe essere visto. La donna si chiama filosofia." Bisogna essere stati anche filosofi per capire così a fondo gli uomini; tutti, in fondo, un po' illusi e un po' persi dietro a qualche idea incompletamente pensata.


Un filosofo da televisione come quello che tanto va di moda (oggi, ieri, che differenza fa?) avrebbe tanto da imparare, qui. Non lo nomino, perché uno dei miei maestri mi ha insegnato che essere umani significa risparmiare a un altro uomo un'umiliazione. A un aperitivo mi disse che "gli orientali non hanno avuto una vera filosofia, perché non hanno avuto Hegel". Ricordo che risposi con ira, e me ne rammarico ancora oggi, perché non lasciai il segno. Questo deve fare un antropologo, oltre che vedere Buddha, Confucio e Sun Tzu nella morale e nell'etica delle moderne nazioni asiatiche. Maraini gli avrebbe detto: "Da noi Hegel e gli idealisti hanno fatto tanto chiasso per alcune ideucce in cui gli indiani Nagarjuna, Asangha, Vasubandhu li avevano preceduti di ben dodici secoli. Se l'avessero saputo sarebbero stati più umili, eh, non ti pare?" Per questa e per tante altre cose questo libro va letto.


Leggerlo mi ha convinto una volta di più che non esiste mezzo migliore delle storie per educare, per ispirare a vivere una vita piena e profondamente vissuta, e per invogliare con l'intrattenimento, senza il quale la cultura è puro nozionismo. Ma in esso non ci sono soltanto viscerali descrizioni che lasciano tracce indelebili nella mente del lettore, sintesi di saggi e romanzi che fanno venir voglia di abbandonare ogni cosa per darsi alla filologia, collegamenti tra filosofie che gli specialisti non si arrischiano a fare perché la libertà di pensiero è sempre compromettente in accademia; dialoghi che catturano con l'efficacia definitiva di un epitaffio l'incessante e perpetuo fluttuare dei significati: il concetto di effimero è permanente. C'è anche altro, purtroppo: noiosi elenchi di nozioni, bigini di storia classica del Giappone che non raggiungono nulla, in quanto sono troppo incompleti per insegnare e troppo poco avvincenti per invogliare a documentarsi ulteriormente. Ma c'è anche di peggio.


È il Maraini retorico, magniloquente, ridondante, bucolico nel senso del manierismo, del dipingere il panorama nipponico con toni del tutto estranei al contesto. Nelle parole di un poeta giapponese, il grido di UNA volpe in UNA foresta millenaria si avverte in lontananza, e noi lettori facciamo il resto, creando attorno alla pagina la nebbia della mattina, le spighe di riso sfiorate dalle dita del primo sole, il silenzio. Quando Maraini cede al compiacimento del proprio stesso fascino di studioso e viaggiatore, facendo di tutte le foreste foreste millenarie e di tutte le volpi delle suggeritrici del cosmo, egli ha lo stesso timbro estetico di una cartolina per turisti, per consumatori del bello. Non importa, non importa NIENTE, basta che sia bello, basta che sia bello per quel che noi intendiamo. Questo è quel che gli specialisti chiamano Orientalismo, e che Maraini avrebbe dovuto essere allenato, e avrebbe dovuto allenarci, a riconoscere e criticare.


Io tendo a imputare questa propensione al cliché alla pigrizia di chi, trovandosi di fronte al nuovo, al raro, all'intraducibile, sceglie (forse inconsapevolmente) la strada conosciuta dell'abitudine linguistica, certo che il lettore, suo simile, saprà percorrerlo. Ma io preferisco indicare, e sperare che il lettore saprà guardare dove io ho visto, perché è sempre meglio lasciare l'amaro di una domanda piuttosto che far conoscere la dolcezza di una risposta ovvia, così simile al sapore, nauseante e artificiale, di una caramella sottocosto. Non tutte le bacchette di legno sanno di cipresso. Solo UN paio, quando UN giorno ti capita di annusarne il profumo mentre alle cinque del mattino fai colazione al mercato di Tsukiji, con sashimi appena uscito dal mare, allora sì, vale la pena di scrivere che QUEL giorno, in QUEL momento, tu e il lettore provaste quella sensazione irripetibile, unica, o al massimo rara. Altrimenti è orientalismo, esotismo, cioè la cosa che più mi annoia, delude, repelle: questo incessante parlare di noi.


E so di non essere il solo. Più di una persona mi ha confessato di essere stata respinta dal tono di compiaciuta eloquenza da cui Maraini si lasciava spesso sedurre, come un seduttore, appunto, uno, cioè, che davvero non ami altri che sé stesso. Ma a tutti i maestri, ho sempre pensato, si devono perdonare i difetti: quante volte loro sono stati pazienti con noi! Nel criticarli, dobbiamo mostrare affetto, non asprezza, e gratitudine per quanto ci hanno donato di valore. E nel caso di Maraini, oltre a quanto detto più sopra, la gratitudine mi sorge spontanea per aver condiviso con me, con noi, la corrispondenza di amorosi sensi tra lui e questa terra, questi uomini e queste donne. Ore Giapponesi non è, in altre parole, un libro di divulgazione. È una lettera d'amore, una vera. La parti migliori assomigliano a una collezione di confessioni in cui l'autore ringrazia la persona amata per tutto quello che ha vissuto grazie ad essa, celebrando lei e il sentimento che li ha uniti, ma ricorda anche che l'incontro tra i due mondi è possibile solo nella misura in cui tali mondi erano, sono e saranno sempre diversi e quindi separati. E pur tuttavia, proprio grazie a quello che si sono reciprocamente dati, quando la loro storia d'amore inevitabilmente finisce, niente sarà più come prima.

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