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Antropologia Narrata

in breve

L'antropologia potrebbe rendere la nostra società migliore. Potrebbe fornirci un vocabolario con il quale nominare i fenomeni che compongono il nostro presente.  Potrebbe insegnarci i metodi per comprenderli. Potrebbe renderci consapevoli delle emozioni negative che questi fenomeni ci suscitano e che ci impediscono di ragionare lucidamente. Primo fra tutti, il fenomeno della crisi migratoria, dove le emozioni negative dominano il dibattito, tanto quello pubblico che quello privato. Poi c'è la questione del relativismo culturale, tutt'altro che risolta: abbiamo ormai capito che dare a tutte le culture lo stesso valore non è lo stesso che dire che tutte le culture sono uguali. Ma come stabilire cosa è permesso e cosa no? D'altra parte, il razzismo deve essere sempre combattuto, ma tra i tanti comportamenti derubricati come razzisti ce ne sono alcuni che chiameremmo con altro nome se sapessimo davvero cosa sono, se ci sforzassimo di capire, di andare al di là della narrativa più semplice e giornalisticamente corretta.

 

L'antropologia potrebbe darci tutte queste cose; e molte altre, ma non è ancora entrata a far parte delle competenze del cittadino. Tutti noi abbiamo qualche rudimento di storia, geografia, filosofia, matematica, chimica o grammatica. Tutte materie necessarie a decodificare il presente, a orientarci nello spazio, a perseguire il bene, a non farci fregare quando ci portano il conto, quando leggiamo gli ingredienti di un succo di frutta o i termini legali di un contratto. Non si può dire lo stesso dei termini necessari a comprendere le culture umane, ed è per questo che si dice spesso che i partiti politici xenofobi fanno leva sull'ignoranza della gente. Sappiamo davvero il significato di termini essenziali alla vita associata come famiglia, comunità, uomo, donna, figli; di binomi quali debito-credito, dono-merce, etica-morale? E saremmo in grado di spiegare come il significato di questi termini cambia se ci spostiamo a oriente, a occidente, a nord o a sud? Saperlo, significa possedere competenza culturale, una facoltà che fino ad oggi non siamo stati in grado di sviluppare a sufficienza.

 

Ma non è colpa nostra, o almeno non soltanto. Gli antropologi degli ultimi decenni sono stati per lo più assenti dal dibattito pubblico, e nei rari casi in cui hanno avuto la possibilità di parlare sono stati del tutto ininfluenti. La ragioni di ciò sono tante e chi fosse interessato a conoscerle nel dettaglio può leggere l'articolo The Anthropology of Storytelling e/o esplorare la sezione Academia. In breve, io credo che la lingua parlata dagli antropologi negli ultimi decenni sia piena di termini complessi (troppo spesso inutilmente), che vengono usati all'interno di frasi eccessivamente lunghe, per formulare ragionamenti labirintici, finalizzati per lo più a risolvere problemi che la gente non ha, a rispondere a domande che la gente non si pone, e illuminare zone d'ombra cui la gente non è interessata. Al contrario, gli antropologi degli ultimi decenni sono stati molto timidi nell'affrontare temi di rilevanza pubblica, forse temendo di "colonizzare" il pensiero dell'Altro o di venir meno al relativismo culturale imperante, che però vuol dire tutto e niente. Inevitabile che, comunicando in questo modo, si capiscano solo tra di loro. Relegati in una comunità inaccessibile alla gente comune, hanno raffinato molto il loro pensiero ma sono stati incapaci di condividerlo.

 

Mi sono reso conto di questo quando ho capito che nessuno, a parte qualche collega, avrebbe letto i risultati delle mie ricerche. E la cosa non mi andava affatto bene, perché credevo davvero che quel che ho imparato potesse rendere migliore il nostro mondo. Allora ho cominciato a riflettere sul potere del linguaggio e su come potessi comunicare la mia ricerca in modo da dialogare con tutti, non solo con gli addetti ai lavori. È stato così che sono arrivato al romanzo, e ancora una volta vi rimando all'articolo sullo storytelling per chiarire le ragioni più specifiche di questa scelta. Qui mi preme soltanto chiarire che, sebbene la narrativa non sostituisca la trattazione scientifica, essa ha il potere di dimostrare attraverso le emozioni, piuttosto che con la ragione. Una buona storia, una che ti aggancia dentro, può convincere tanto quanto una dimostrazione logica, ma ha molte altre qualità: è immediata (il che di questi tempi è necessario), ed è duratura, perché agisce a livello profondo.

 

Insomma, io non intendo suggerire che leggere un romanzo possa rendervi più intelligenti o informati della lettura di un saggio o di una serie di articoli scientifici. Dico invece che una storia come Il Prezzo della Sposa possa farci vivere l'esperienza di abbandonare la nostra cultura, liberarci di tutte quelle cose che diamo per scontate, obbligarci a ricominciare, a partire per un viaggio che ci farà imparare nuove prospettive dalle quali vedere il mondo, ma soprattutto che ci cambierà come esseri umani. È questo che l'antropologia ha fatto a me, ed è questo che vorrei facesse a tutti: renderci capaci di parlare con competenza di che cosa significhi essere umani. È una vecchia questione... "conosci te stesso" recitava la targa all'entrata dell'oracolo di Delfi (con una certa ironia, ho sempre pensato). Sebbene aggiornato ai nostri tempi, in sostanza, è a questo antico invito che dovrà rispondere l'antropologia narrativa. Buona lettura. 

O meglio, buona avventura!

Rodolfo Maggio

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