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Tutta un'altra foresta

Tempo di lettura: sei minuti

Consigliato con: una Coca-Cola alla pesca

Nella scorsa "puntata" ho menzionato il modo in cui Maraini parlava del grido di una volpe in una foresta millenaria. Ho scritto che era intriso di orientalismo, quell'atteggiamento estetico che attribuisce a qualunque cosa venga dall'Oriente un carattere esotico, e che per questa stessa ragione lo depriva, e priva noi, di quella sensazione di rarità e lontananza, quasi di nostalgia, che posseggono le cose raccolte nei viaggi.


Viaggiare per raccontarlo ha senso solo nella misura in cui si è in grado di conservare quella sensazione di scoperta e cercare con cura il modo più efficace per trasmetterla a chi, leggendo, la viene a cercare. In Ore Giapponesi Maraini spesso non conservava questa sensazione e, di conseguenza, non sempre la sapeva donare; perché di colpo le volpi diventavano come intrinseche alla foresta giapponese: ce le aspettiamo, ed è per soddisfare questa esigenza di esotico, di orientale, di nipponico, che l'autore di storielle per palati semplici non manca mai di mettere un grido di volpe in una foresta, quando serve. E così, invece che stupirci, ci soddisfiamo. Ah...


In un altra foresta, un autore veramente orientale, un giapponese scrive: "Sulle cime degli alberi le foglie frusciavano e in lontananza si sentiva un cane abbaiare. Era un abbaiare così lontano e fioco che sembrava provenire dai confini del mondo. Ma per il resto il silenzio era assoluto." Io credo profondamente, sono convinto, che Haruki Murakami abbia davvero udito quel cane abbaiare, e che abbia serbato in sé il ricordo di tutto quel che aveva provato, per noi, per raccontarcelo e farcelo sentire, lì con lui e con Naoko, sospesi, in quel silenzio pieno di suoni che è il ricordo.


Ho cominciato a leggere Norwegian Wood la sera stessa che ho finito Ore Giapponesi, ma invece che metterci più di un mese, l'ho finito in tre o quattro sessioni, per così dire. Non so davvero dire che cosa sia, che cosa abbia questo libro, perché non ti fa smettere di leggerlo. È un mistero. È per questo genere di libri che mi sono appassionato alla meccanica della narrazione. Voglio guardare dentro, dietro, sotto alle parole e capire come è possibile che con lo stesso mezzo -le parole, appunto- si possano ottenere risultati tanto diversi.


Ma soprattutto, come è possibile che tali risultati siano validi per così tante persone? Il fatto che un libro abbia successo significa, in ultima analisi, che l'autore ha capito come dialogare (telepaticamente) con tanti lettori diversi, indipendentemente dalla loro cultura e dalla loro storia. Quando ho realizzato questo, ho capito che antropologia e narrativa sono davvero molto, molto legate. Come può dirsi antropologo uno che non abbia compreso il potere delle storie e i meccanismi per raccontarle? Quando capisci che stai dialogando con tutti, quando tutti insomma ti capiscono, allora forse puoi sperare di averli in parte capiti. Ma torniamo al Giappone.


"Per fortuna Tokyo è tanto grande che per quanto potessimo camminare, rimanevano sempre altre strade dove andare."


Ho cominciato a leggere questo libro perché me lo ha consigliato il mio amico Luca Pietra. Grazie vecchio mio, mi hai fatto un bel regalo. Ovviamente, era già nella mia lista di letture per questo periodo di vita a Tokyo, perché se da una parte sto imparando tanto sul Giappone, dall'altra so che non sarei il primo a scriverne -neanche il trecentesimo, se è per questo; e che quindi bisognerebbe prendersi il tempo per leggere e, soprattutto, riflettere su come la capitale del Sol Levante è stata raccontata finora, sia in termini di contenuto che di forma.


Per quanto questo libro sia un capolavoro dal punto di vista narrativo, chi cominci a leggerlo sperando di trovarvi continui rimandi alla cultura giapponese, ne rimarrà deluso. I riferimenti che Murakami sparpaglia per tutto il libro sono Truman Capote, John Updike, Francis Scott Fitzgerald, Raymond Chandler, Thomas Mann, e tanti altri autori stranieri, così come compositori francesi, spagnoli, russi, musicisti americani, jazzisti afro-americani e, naturalmente, The Beatles. Per non parlare delle numerose lattine di Coca-Cola che Toru trangugia tra una pensata e l'altra. Insomma, potrebbe essere un romanzo ambientato ovunque.


In questo non intendo assolutamente dire che ciò sia un peccato. Al contrario, uno dei motivi del suo successo potrebbe essere proprio questo. Per quanto io mi ostini a voler scrivere dell'altro, perché credo che abbiamo tutti un gran bisogno di guardare oltre i nostri confini (dovunque essi siano), riconosco che la forza straordinaria di questo romanzo sta anche nel farci immedesimare nelle vicende Toru, Naoko, Midori, e tutti gli altri personaggi, così esatti; personaggi che in qualche momento anche noi siamo stati, senza per questo essere giapponesi, o che in qualche momento della nostra vita abbiamo incontrato, senza per questo aver viaggiato o vissuto in Giappone.


Per esempio, molto presto nella storia leggiamo di quando l'Università di Waseda era occupata dagli studenti ispirati dagli ideali rivoluzionari, esattamente come è avvenuto ripetutamente in tutte le università e nelle scuole superiori occidentali sin dagli anni della cosiddetta contestazione. "Pensai che il vero nemico di questa gente non era il potere del governo ma la loro mancanza di immaginazione." Io pensai esattamente la stessa cosa, ai tempi in cui il Collettivo spadroneggiava al Manzoni, e fu per questo che fondai, insieme a gruppo di amici, il giornalino del liceo, attivo ancora oggi.


Lo dico solo per sottolineare quanto sia vero che pensai esattamente questo, che quindi mi sono riconosciuto in quel pezzo di storia. Il giornalino altro non fu che un atto di immaginazione talmente sincero e potente da prendere vita, per reagire a ragazzi più o meno indottrinati, non dissimili da quelli incontrati da Toru a Waseda. Tutto questo per dire che ci si ritrova tanto di noi in questa storia; e malgrado a me ciò non piaccia in generale (forse un po' per partito preso) è innegabile che la possibilità di riconoscermi nelle vicende dei protagonisti sia una delle ragioni per cui ho divorato questo libro.


Ovviamente, non sto dicendo che non ci sia neanche un po' di Tokyo. Ce n'è eccome. Eccola:


"Arrivai al collegio che erano le quattro e mezzo, posai lo zaino, mi cambiai e uscii subito per andare a Shinjuku al lavoro. Dalle sei alle dieci restai lì a guardare il negozio e a occuparmi dei clienti, osservando nel frattempo la gente di tutti i tipi che passava davanti alla vetrina. Famiglie, coppie, ubriachi, yakuza, ragazze esuberanti in minigonna, giovani barbuti in stile hippie, entraîneuses, oltre a varie specie di persone non meglio identificate, sfilavano lì fuori senza interruzione.

...

Accanto al negozio c'era un sex-shop dove un uomo di mezza età dalla faccia addormentata vendeva gli oggetti più strani. Non riuscivo a immaginare come qualcuno potesse desiderare roba del genere, ma gli affari sembravano andare a gonfie vele. Nel vicolo opposto in diagonale al negozio c'era uno studente che aveva bevuto troppo e vomitava l'anima. Nel game center dall'altra parte della strada, il cuoco di un ristorante vicino passava l'intervallo giocando i suoi soldi a bingo. Un barbone dalla faccia annerita si era accovacciato ai piedi di una saracinesca abbassata e se ne stava completamente immobile.

...

A intervalli di quindici minuti si sentiva una sirena di ambulanza o della polizia. Tre impiegati completamente ubriachi stavano fuori da una cabina ridendo e gridando in continuazione “Che fica!” alla bella ragazza coi capelli lunghi che stava telefonando.

A furia di guardare quelle scene, la mia testa si faceva sempre più confusa e ci capivo sempre di meno. Ma dove cavolo mi trovo? pensavo, che significa tutto questo?"


Oggi chi si avventuri per Shinjuku alla ricerca di atmosfere, in particolare dopo una certa ora, è esattamente questo che troverà. Appunto. Non è esattamente lo scenario che ci aspetteremmo. Eppure Tokyo è anche questo, e parte del lavoro di de-orientalizzare il Giappone consiste anche nel rendere questi scorci letteratura.


Ciononostante, io penso che quanto c'è di precipuamente giapponese in Norwegian Wood non siano neanche questi scorci. In ultima analisi, non penso che ci sia affatto qualcosa di definibile o indicabile come tipicamente giapponese, in questo libro; nel senso che, pur essendoci elementi riconoscibili come in qualche modo "tipicamente giapponesi" (sebbene non elementi cruciali nella storia) non sono essi a rendere la storia "giapponese."


Qualcuno potrebbe dire che invece c'è qualcosa di tipicamente giapponese che permea la storia tutta: il tema del suicidio; e in un certo senso sarebbe vero. C'è un modo tutto giapponese di togliersi la vita, e questo lo sanno tutti. E non si tratta solo di del classico suicidio rituale dei samurai. Togliersi la vita in Giappone, soprattutto oggi, significa principalmente togliere il disturbo, svanire, sottrarre la propria presenza per non arrecare ulteriore danno o fastidio a una società, gruppo o famiglia alla quale non si riesce più a contribuire.


Ma a questo si potrebbe obiettare che ogni società ha il suo modo di concepire il suicidio, e che il Giappone non è affatto un caso isolato, né in termini qualitativi né quantitativi. Per fare un esempio a noi prossimo: nel Canton Ticino, dove la concentrazione di suicidi pro-capite è molto alta, la ragione potrebbe essere culturale. Anzi, lo è di certo. E che fai, non vai a vedere che cosa ci sia di tipico nel suicidio ticinese?


No, io non penso che questo sia un libro tipicamente giapponese, né un libro adatto a capire il Giappone. Semmai è un libro, un libro bellissimo, per capire l'amore. Entrambi, credo, misteri inspiegabili che solo le storie possono avvicinarci a comprendere.

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